Le aree di intervento

Vi introduco nel mio spazio dedicato alle 8 principali aree di intervento psicologico.

Qui potrete esplorare le diverse sfaccettature della mia pratica professionale, scoprendo come posso aiutarvi a raggiungere un benessere emotivo e psicologico duraturo.

Disturbo d’ansia

ansia

L’ansia è una condizione caratterizzata da uno stato di inquietudine, apprensione e sensazione di pericolo imminente, spesso senza una causa chiara riconoscibile. Questo stato emotivo può essere avvertito come un’esperienza primaria, diffusa e involontaria, associata a una profonda incertezza e senso di impotenza.

A differenza della paura, che è una risposta emotiva a minacce reali e identificabili, l’ansia manca di un preciso oggetto scatenante o questo oggetto non è chiaramente identificabile per l’individuo. L’ansia è spesso accompagnata da sintomi neurovegetativi come tachicardia, ipertensione, sudorazione, tremori e disturbi del sistema digerente e urinario, che possono amplificare l’esperienza emotiva.

L’ansia può essere considerata normale quando svolge una funzione anticipatoria, preparando l’individuo a un’azione futura. Tuttavia, se questa anticipazione è troppo intensa, può diventare ansia paralizzante e quindi patologica.

In linea con quanto affermato da Lalli (1999), il soggetto ansioso è caratterizzato da apprensività, inibizione ed eccitabilità. L’apprensività si manifesta come un’attesa ansiosa e pensieri di pessimismo, costringendo il soggetto in uno stato di apprensione costante. Questo vissuto psichico, insieme all’eccitabilità, può causare una tensione muscolare significativa, determinando quella sensazione di stanchezza che spesso affligge le persone ansiose. L’ansioso può essere costantemente in uno stato di ipervigilanza, con scarsi momenti di rilassamento.

Accanto a questa situazione di eccitabilità e di estrema reattività, l’ansioso manifesta anche una piccola inibizione sul piano affettivo e nei rapporti sociali. Inoltre, i soggetti vivono poco il presente, perché sempre proiettati nel futuro, come meccanismo per sfuggire all’ansia.

Secondo il DSM-V l’ansia e la preoccupazione eccessiva devono essere associate a tre o più dei seguenti sintomi:
– irrequietezza o sentirsi tesi;
– facile affaticamento;
– difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria;
– irritabilità;
– tensione muscolare;
– alterazione del sonno.

La psicoterapia psicodinamica può essere indicata in molti pazienti con disturbo di ansia generalizzato, poiché è un mezzo per risalire ai fattori consci e inconsci che la generano.

Disturbo depressivo

disturbo depressivo

La depressione è una condizione complessa con diverse manifestazioni. Tra i vari tipi di depressione, si distinguono la depressione nevrotica e la depressione endogena. La depressione nevrotica spesso si sviluppa a seguito di uno scompenso del carattere depressivo dovuto a fattori traumatici psicologici (Lalli 1999). La depressione endogena, d’altra parte, si manifesta quando si verificano disturbi biochimici dovuti ad alterazioni dei neurotrasmettitori cerebrali.

La depressione nevrotica si manifesta con disturbi strettamente psichici, e quelli a prevalenza somatica. Questi sintomi possono inizialmente essere scambiati per manifestazioni di ansia, ma successivamente emergono sintomi depressivi come tristezza, pessimismo e irritabilità. I sintomi somatici, invece, possono coinvolgere vari organi ed apparati e sono spesso accompagnati da una sensazione di stanchezza. Ci possono essere disturbi digestivi come nausea e stitichezza, dolori diffusi, e problemi respiratori come tosse e sensazione di mancanza d’aria. La depressione può anche influire sulla libido e il sonno, causando difficoltà nell’addormentarsi.

Il quadro depressivo è caratterizzato da irritabilità, ridotta capacità di provare piacere e interesse per la vita, mentre i sintomi somatici possono essere percepiti come gravi e inguaribili. Alcune situazioni, come la crescita dei figli, il matrimonio o un trasloco, possono essere vissute come perdite, fallimenti o solitudine, risvegliando ansie legate a temi profondi come la malattia, la vecchiaia e la morte.

Le persone affette da depressione spesso sono concentrate sui propri problemi e tendono a condividerli continuamente con gli altri, spesso in modo lamentoso e accusatorio verso quanti egli ritiene la causa dei propri problemi. A volte cercano di affrontare i problemi ricorrendo a sostanze sostitutive come alcol, cibo o droghe, creando una potenziale dipendenza, con questo meccanismo di distanziamento il soggetto cerca quindi di allontanare il vissuto depressivo. Frequenti sono anche gli atteggiamenti autolesionistici che hanno la funzione di  richiamare l’attenzione dei familiari.

Nel caso di depressione con sintomi marcati, può essere consigliabile un trattamento multidisciplinare che includa anche il supporto di uno psichiatra per la parte farmacologica, oltre a una terapia psicologica. Secondo il DSM-V, i criteri per la diagnosi di disturbo depressivo persistente richiedono la presenza di un umore depresso per almeno due anni (un anno nei bambini e negli adolescenti).

Secondo il DSM-V si richiede la presenza di almeno due dei seguenti sintomi:
– Appetito scarso o aumentato
– Insonnia o ipersonnia
– Scarsa energia o eccessiva faticabilità
– Scarsa autostima
– Scarsa concentrazione o difficoltà a prendere decisioni
– Sentimento di mancanza di speranza

Disturbo da sintomi somatici

sintomi somatici

Il disturbo da sintomi somatici è una condizione caratterizzata da molteplici disturbi fisici persistenti, accompagnati da pensieri ossessivi o comportamenti disadattivi, insieme a sentimenti e comportamenti in risposta a questi sintomi. Questi sintomi non sono intenzionalmente prodotti o simulati e possono o meno essere collegati a una diagnosi medica già nota. Ciò che distingue questo disturbo è la preoccupazione costante dell’individuo per i sintomi somatici, che spesso diventano il fulcro della sua attenzione, compromettendo il suo funzionamento quotidiano in modo più o meno grave.

Inoltre, una caratteristica distintiva di questi disturbi è la tendenza dell’individuo a cercare aiuto principalmente in strutture mediche, piuttosto che in contesti dedicati alla salute mentale. Questa scelta spesso si basa sulla convinzione che i sintomi somatici abbiano un’origine biologica, portando le persone a cercare soluzioni prevalentemente da medici e specialisti.

Il disturbo da sintomi somatici può avere un impatto significativo sulla qualità della vita e richiede spesso un approccio terapeutico specializzato, per affrontare sia gli aspetti fisici che quelli psicologici.

Secondo il DSM-V, il disturbo da sintomi somatici è caratterizzato da uno o più sintomi somatici che procurano disagio e portano ad alterazioni significative della vita quotidiana per almeno sei mesi, e sono accompagnati da:
– Pensieri sproporzionati e persistenti circa la gravità dei sintomi
– Livello di ansia costantemente elevato riguardo alla propria salute o ai sintomi
– Tempo ed energie eccessivi spesi a causa dei sintomi o delle preoccupazioni per lo stato di salute

Questo disturbo può avere una gravità che va da lieve, moderata a grave, “con dolore predominante” quando i sintomi somatici sono accompagnati da dolore e specificante “persistente” quando i dolori sono gravi e persistono per più di sei mesi con una marcata compromissione del funzionamento del soggetto. I sintomi possono essere specifici (ad esempio, il dolore localizzato in un punto del corpo) oppure aspecifici (ad esempio, un senso di spossatezza o malessere generale). È importante sottolineare che in questo disturbo i sintomi somatici sono autentici, ossia vissuti veramente dall’individuo, a prescindere che ci sia una spiegazione medica o meno.

La persona non sta simulando o mentendo; sta effettivamente vivendo un disagio a causa di questi sintomi, che possono o meno essere associati a una condizione medica concreta. La preoccupazione per questi sintomi, percepiti come minacciosi, è notevolmente elevata, spingendo l’individuo a cercare assistenza medica nella convinzione che ci sia un problema medico sottostante.

Tuttavia, nel caso in cui un medico prescriva un trattamento o fornisca una diagnosi, l’individuo può non accettarla completamente, cercando ulteriori opinioni o continuando a cercare cure mediche senza risultati significativi. Infatti, molte persone affette da questo disturbo non rispondono bene alle terapie mediche. Quando viene suggerito che i sintomi somatici possono essere legati a un disagio psicologico anziché a una causa organica, il paziente potrebbe non credere alla spiegazione e sentirsi incompreso, spingendolo a cercare ulteriori pareri medici per una diagnosi che percepisce come più adeguata.

Il disturbo da sintomi somatici è spesso in comorbilità con:
– Disturbi medici
– Disturbo d’ansia
– Disturbo depressivo

Dipendenze

dipendenze

Per dipendenze si intende un’alterazione del comportamento, che da semplice e comune abitudine diventa una ricerca eccessiva e patologica del piacere attraverso mezzi, sostanze o comportamenti che conducono a una condizione patologica. Nelle dipendenze, l’individuo tende a perdere la capacità di controllo sull’abitudine.

Tra le dipendenze più diffuse troviamo:
– Sostanze stupefacenti, tra cui eroina, cocaina, cannabinoidi e oppiacei
– Farmaci, in particolare antidolorifici, antidepressivi, ansiolitici o sonniferi
– Gioco d’azzardo, noto come ludopatia
– Utilizzo eccessivo di Internet o dei social media
– Dipendenza dalla pornografia
– Alcolismo
– Tabagismo, ossia la dipendenza dal fumo di sigarette.

Nel disturbo del controllo degli impulsi, che condivide alcune caratteristiche con le dipendenze, si verificano diverse fasi:
– Inizialmente, il soggetto avverte un impulso a compiere una specifica azione (ad esempio, giocare).
– L’idea di compiere l’azione scatena una crescente tentazione e una progressiva tensione interna.
– La persona si impegna nell’azione patologica sperimentando un piacere momentaneo.
– Subito dopo, si sperimenta un senso di sollievo per aver momentaneamente alleviato la tensione interna.
– In alcuni casi, la persona può sentirsi in colpa e rimproverarsi per l’azione compiuta.

Questi comportamenti possono diventare problematici e richiedere interventi specializzati per il trattamento e il recupero.

Ludopatia

L’espressione ‘ludopatia’ si riferisce alla condizione di dipendenza dal gioco d’azzardo, in cui una persona è caratterizzata da pensieri persistenti legati al gioco. Ad esempio, il soggetto può rivivere esperienze passate di gioco, pianificare future scommesse e pensare a modi per ottenere denaro per il gioco. Come in tutte le forme di dipendenza, uscire dal ciclo del gioco d’azzardo è una sfida complessa.

I familiari possono essere di grande aiuto per la persona affetta da ludopatia, ma è importante evitare di assecondare le richieste finanziarie legate al gioco. Al contrario, il sostegno dei familiari dovrebbe mirare a far prendere coscienza al soggetto del problema. Inoltre, è essenziale affrontare il problema rapidamente per offrire alla persona affetta da ludopatia la migliore possibilità di recupero.

La ludopatia deve essere considerata come una vera e propria patologia psicologica, e per questo motivo è fondamentale cercare assistenza da centri specializzati nella cura delle dipendenze da gioco d’azzardo. Il trattamento riabilitativo solitamente inizia con una valutazione delle condizioni iniziali del paziente, seguita dalla pianificazione di un piano di trattamento. La fase successiva coinvolge il supporto psicologico e la partecipazione a un gruppo di trattamento e riabilitazione, il tutto finalizzato ad affrontare il problema e a ricercare un nuovo stile di vita.

È importante intervenire prontamente, poiché i rischi associati alla ludopatia comprendono non solo la perdita incontrollata di risorse economiche, ma anche la possibilità di trascurare le normali attività quotidiane, come lo studio, il lavoro e le relazioni interpersonali. Alcune persone affette da ludopatia possono anche sviluppare disturbi dell’umore che cercano di alleviare attraverso il gioco.

Oggi, il gioco d’azzardo è riconosciuto come una nuova forma di dipendenza, e un percorso psico-riabilitativo all’interno della comunità è essenziale, al fine di riacquistare una capacità relazionale ma anche sociale ed affettiva del soggetto.

Disturbi dell’alimentazione

disturbi alimentazione

Il cibo, oltre che produttore di energia per la sopravvivenza, è veicolo di emozioni che impregnano l’evoluzione psichica di un individuo. La relazione d’oggetto, lo strutturarsi del legame, passano attraverso il cibo con cui madre e bambino vengono a contatto, scambiando stati affettivi differenti (Baldassarre, 2012). Il cibo si rivela un momento di condivisione tra madre e bambino, una comunicazione emotiva profonda che “passa” al di là del comportamento fisico del nutrire al dare affetto.

Spesso, l’attenzione eccessiva alla dieta e all’alimentazione può diventare un meccanismo di fuga per affrontare le tensioni personali che l’individuo non riesce ad elaborare in altre modalità. È significativo notare che le problematiche legate all’alimentazione spesso emergono in due fasi cruciali dello sviluppo: l’infanzia e l’adolescenza. Durante l’infanzia, l’individuo ha una relazione stretta con il cibo e l’oggetto materno, mentre durante l’adolescenza, il processo di crescita e il lavoro di elaborazione dei cambiamenti fisici possono riportare in primo piano le esperienze affettive passate vissute con l’oggetto materno. In realtà, le forme patologiche legate all’alimentazione possono risalire addirittura alla primissima infanzia, alla relazione madre-bambino e alle sue distorsioni (Baldassarre, 2012).

La qualità emotiva associata ai pasti contribuisce a creare un ambiente affettivo che nutre la mente e stimola le potenzialità biologiche dell’individuo. Tuttavia, nelle persone affette da disturbi alimentari, si manifesta spesso una percezione alterata della fame. Questi individui concentrano la loro attenzione esclusivamente sull’alimentazione, trascurando i conflitti emotivi sottostanti.

Anoressia

L’anoressia è caratterizzata da un rifiuto sistematico del cibo che provoca un marcato dimagrimento. Colpisce prevalentemente il sesso femminile ed inizia in età puberale, rappresenta certamente una patologia ormai al confine della psicosi. E questo non soltanto per la gravità della sintomatologia che può portare le giovani pazienti a quadri di inedia molto gravi ma anche per il particolare tipo di disturbo che ha molto in comune con i quadri deliranti.

Infatti, possiamo dire che nella anoressia mentale lo schema corporeo è alterato al punto tale da far ritenere non esistere più in queste pazienti un corretto esame della realtà (Lalli, 1999). Il problema centrale dell’anoressia, quindi, non è tanto un disturbo alimentare quanto, piuttosto, un disturbo complesso che riguarda la visione del proprio corpo e l’utilizzazione perversa che l’anoressica fa del proprio corpo emaciato esibito con apparente autonomia, ma che invece viene usato come controllo dell’ambiente circostante. Nel colloquio attento con le anoressiche compaiono in loro timori o angosce ingiustificate di poter ingrassare ma soprattutto colpisce l’assoluta e irrazionale convinzione di essere sovrappeso (pur avendo un peso già al di sotto della media). Esse manifestano spesso la necessità di dimagrire ulteriormente.

Secondo Lalli, i segni caratteristici dell’anoressia mentale sono:
– una visione delirante della propria immagine corporea
– una alterazione nella percezione degli stimoli della fame
– una totale mancanza di consapevolezza di malattia
– una apparente mancanza di ansia ma c’è angoscia molto profonda allorché queste pazienti, con il ricovero, sono costrette a mangiare
– l’anoressica esprime una incapacità di assumere il ruolo sessuale e di integrare le trasformazioni della pubertà
– il conflitto centrale si situa al livello dell’immagine corporea e non al livello delle funzioni alimentari
– l’immagine corporea subisce una distorsione che è molto simile ad una visione delirante

In ragione di questa equivalenza simbolica della madre con il nutrimento, il rifiuto del cibo è visto come una forma di rifiuto della madre stessa, per affermare la propria indipendenza nei suoi confronti. Se, da una parte, il rifiuto del cibo è vissuto come segno di autonomia, dall’altra le anoressiche cercano di manipolare e controllare l’ambiente familiare attraverso l’esibizione di un corpo emaciato che è fonte di angoscia e di preoccupazione per i genitori.

Nella storia di pazienti sofferenti di disturbo alimentare si osserva molto spesso che per anni si sono uniformati in tutto, pensieri e comportamento alle richieste familiari e pur di condividere l’assenso molto presto, ancora bambini hanno iniziato a rinunciare a una parte di sé stessi, diventando una estensione artificiosa della madre narcisistica da cui non riescono ad emanciparsi per costruirsi una propria identità una volta divenute adulte (Baldassarre 2012).

L’anoressica è stata una bambina assai docile, obbediente alle richieste materne, che ha cercato di realizzare passivamente i suoi bisogni narcisistici tralasciando i propri.

Si scopre inoltre che dietro la mancanza di appetito si nasconde un digiuno auto imposto e compulsivo. L’anoressica tenta di distruggere attraverso il digiuno i caratteri sessuali che il corpo acquisisce, cercando in qualche modo di prolungare l’infanzia e quindi la dipendenza dalla madre da cui non riesce a separarsi.

Bulimia

La bulimia è un disturbo del comportamento alimentare che si manifesta con una voracità eccessiva e patologica nel mangiare, spesso seguita da comportamenti di autoinduzione del vomito o l’uso di lassativi. I sintomi principali includono:
– Abbuffate Ricorrenti: Queste si caratterizzano per un eccessivo consumo di cibo e una perdita di controllo durante il pasto, con difficoltà a monitorare la quantità e il tipo di cibo ingerito.
– Comportamenti di Compensazione: I pazienti ricorrono a comportamenti come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi per prevenire l’aumento di peso in seguito alle abbuffate.
– Preoccupazione per il Peso Corporeo: La preoccupazione e l’ansia legate al peso corporeo diventano centrali nella vita dei soggetti bulimici, influenzando la loro autostima e l’immagine di sé.

Il soggetto bulimico sente il bisogno compulsivo di riempirsi per poi svuotarsi provocando il vomito. Attraverso il cibo tenta di riempire un senso di vuoto provocato dall’aver sperimentato nell’infanzia una madre poco concentrata sui loro bisogni, o altre situazioni che hanno fatto sì da non aver mai potuto sperimentare un legame affettivo di “appoggio”. Da adulti tendono a reprimere i sentimenti di rabbia e tensione provati a causa dello scarso accudimento che poi tendono a scaricare attraverso le “abbuffate”.

Obesità psicogena

L’obesità è un aumento patologico dei depositi adiposi che può compromettere seriamente la salute di un individuo, portando a un eccessivo aumento di peso. Un elemento importante da considerare è l’ambiente familiare in cui vive il soggetto. Spesso, ciò si verifica in contesti familiari in cui i figli vengono coinvolti o strumentalizzati per compensare le insoddisfazioni e le frustrazioni sociali dei genitori.

L’iperalimentazione è un tentativo incongruo di dare qualcosa in più ai figli ma anche inconsciamente quello di renderli dipendenti. Questo spiega, poi, la scarsa propensione che tali soggetti hanno nell’affrontare la vita sociale (Lalli, 1999).

La madre, incapace di fornire sicurezza ed affetto in modo adeguato, può cercare di compensare questa mancanza attraverso l’iperalimentazione. Questo ambiente familiare può essere caratterizzato da un continuo timore dell’allontanamento del figlio, il che può portare la madre a impedire al bambino qualsiasi forma di autonomia, inclusi l’interazione sociale e l’attività fisica.

La madre alterna momenti di dedizione a momenti di rifiuto del figlio. Il bambino cresce in un ambiente insicuro e ricco di messaggi incoerenti, trova difficoltà a discernere ciò che è essenziale per lui; quindi, è costretto a sottovalutare la propria esistenza e, conseguentemente, la sua individualità. L’obeso vive in un clima di una pseudoarmonia che è l’espressione di una eccessiva protezione e di una incapacità di risolvere i conflitti ed è questa mancanza di autonomia e libertà, unita ad una mancanza di identità, una caratteristica peculiare dell’obeso.

Si osserva negli obesi la tendenza a non poter esprimere minimamente una opposizione, non riescono a dire di no, non sanno rifiutare le situazioni e “ingoiano”. Temono che ogni rifiuto sia pericoloso e distruttivo, come hanno appreso nella dinamica del rapporto familiare (Lalli, 1999). Il cibo ha un po’ una funzione di un oggetto sostitutivo che solo in apparenza dovrebbe renderli autonomi rispetto ai rapporti interpersonali. Gli obesi hanno la tendenza a crearsi un falso sé in cui nascondere un Io debole, dipendente e insicuro.

Crisi di coppia

crisi di coppia

Una crisi di coppia può manifestarsi attraverso diversi segnali comuni, tra cui periodi di silenzio, frequenti litigi, difficoltà a esprimere sé stessi, rabbia, e una mancanza generale di intimità. Le cause di una crisi possono essere molteplici, ma una delle ragioni più comuni è legata alle diverse tempistiche di crescita personale dei partner.

Spesso i problemi arrivano in concomitanza con i cambiamenti di vita, come la nascita dei figli, la loro uscita da casa, i cambiamenti lavorativi, etc.

Crisi dovuta al passaggio dalla coniugalità alla genitorialità:
– l’assunzione della funzione genitoriale comporta un periodo di crisi nell’assetto della coniugalità che può essere una crisi evolutiva.
– l’evento nascita non si ascrive solo sul piano di realtà ma ha una forte valenza di rappresentazione di dinamiche intrapsichiche, a volte condivise, a volte personali.
– la nascita di un figlio riattiva schemi relazionali legati alla propria infanzia per cui ciascuno è identificato con i propri genitori, e tende a identificare il figlio con sé stesso bambino, il passato ritorna soprattutto nei suoi aspetti negativi, negli elementi di sofferenza legati alle proprie esperienze infantili.
– la nascita di un figlio è quindi una grande occasione per ridefinire il conflitto intrapsichico legato alla propria esperienza personale di bambino con i propri genitori.
– la relazione con il partner è quindi fondamentale perché fa da contenitore della grande affettività messa in circolo dalla riattivazione dei vissuti infantili di entrambi.
– per superare la crisi di coppia è dunque importante il ritrovamento del particolare “incastro collusivo” tra i due partner ma anche le caratteristiche specifiche del neonato che diventa parte integrante della neoformazione psichica.

Conflitti familiari

conflitti familiari

La dinamica familiare è intrisa di complessità, con due principali assi relazionali: quello coniugale e quello genitore-filiale. Questa complessa struttura si basa su un patto di reciprocità che comprende il riconoscimento dei figli, il rapporto di ascendenza-discendenza, il divieto di incesto, il legame generativo è il fulcro della famiglia. Esso implica anche un legame generazionale con le generazioni precedenti.

Le funzioni chiave della famiglia includono il sostegno per l’allevamento dei figli, l’educazione, la soddisfazione dei bisogni di intimità e il supporto reciproco tra gli adulti. La famiglia è anche un’organizzazione di relazioni primarie che si basa sulla differenza di genere e la differenza tra le generazioni, con un obiettivo intrinseco di generatività.

I conflitti familiari sono spesso scatenati da situazioni di cambiamento non accettate all’interno del nucleo familiare. Molte volte, questi conflitti derivano dalla mancata capacità di dialogo tra i membri della famiglia. Uno dei tipi più comuni di conflitto familiare riguarda i contrasti generazionali, specialmente quando i figli attraversano l’adolescenza, una fase caratterizzata da rapidi cambiamenti che possono portare a relazioni conflittuali. Un altro momento critico può verificarsi durante il passaggio dalla mezza età alla vecchiaia, una transizione spesso complicata da numerosi cambiamenti e reazioni di irascibilità.

In queste situazioni, la famiglia svolge un ruolo fondamentale nell’offrire comprensione e sostegno. Tuttavia, se i conflitti non vengono adeguatamente affrontati e risolti, possono trasformarsi in tensioni e risentimento latenti, dando luogo a malumori, ostilità e sfiducia tra i membri della famiglia.

Affrontare i conflitti familiari richiede un dialogo aperto e sincero, insieme a una volontà comune di trovare soluzioni costruttive. La comprensione reciproca e l’empatia possono svolgere un ruolo essenziale nel consolidare i legami familiari e prevenire la crescita di tensioni inutili, che possono portare all’instaurarsi di relazioni conflittuali.

Elaborazione del lutto

elaborazione del lutto

In molti casi, la vita può porci di fronte ad eventi luttuosi e dolorosi cui il soggetto non riesce da solo a fronteggiare. L’elaborazione del lutto consiste nel lavoro di rielaborazione emotiva dei significati, dei vissuti e dei processi sociali legati alla perdita dell’”oggetto relazionale”, ovvero della persona con la quale si era sviluppato un legame affettivo significativo interrotto dal decesso della stessa (Bowlby, 2012).

Considerando la perdita come una forma irreversibile di separazione, vede la relazione di lutto come un caso particolare di angoscia da separazione, una angoscia che egli considera come una risposta realistica da parte di un individuo che si trova di fronte alla separazione e, dunque, alla perdita.

Bowlby, attingendo alle ricerche di Parkes e di Marward (Bowlby, 2012) ha concettualizzato il lutto come un processo scandito in quattro fasi che non sono nette ma che nell’esperienza soggettiva si intersecano e si sovrappongono continuamente secondo percorsi non lineari.

Esse sono:

fase del torpore/stordimento:

può durare da poche ore ad una settimana, può essere interrotta da attacchi di collera e angoscia intensa; è caratterizzata da una reazione iniziale di shock e incredulità seguita poi da emozioni come rabbia ed angoscia. Una sorta di anestesia e disorganizzazione, per cui la persona colpita dal lutto sembra non registrare la morte avvenuta, in quanto l’evento risulta troppo doloroso e forse incomprensibile.

Per un certo tempo, il soggetto può andare avanti a fare la solita vita in modo automatico ma facilmente si sentirà teso e apprensivo. Questa calma innaturale può essere rotta in qualsiasi momento da uno scoppio di intensa emozione o rabbia.

Fase di ricerca e struggimento:

la seconda fase del lutto può durare da alcuni mesi a qualche anno, nei quali subentrano con la progressiva realizzazione della perdita episodi di intensa sofferenza, intervallati da momenti di ansia, turbamento, rabbia e auto rimproveri. Si tende a ricercare la persona scomparsa ed a rimuginare ossessivamente sull’evento. Tale fase si svolge su due versanti distinti: da un lato la ricerca, dall’altro la protesta.

La ricerca segue una sequenza complessa, le cui componenti sono indicate da Bowlby come segue:
– un moto incessante e continuo scrutare l’ambiente
– il pensiero fisso sulla persona perduta
– lo sviluppo di una situazione percettiva centrata sulla persona perduta, cioè di una disposizione a percepire e a notare qualsiasi stimolo che ne suggerirebbe la presenza, ignorando tutti quelli che non servirebbero a tale scopo
– il dirigere l’attenzione verso quelle zone dell’ambiente in cui sembra più probabile trovare la persona perduta
– il chiamare la persona perduta

Dall’altro lato, molto comune è l’espressione della rabbia, della collera che conferisce al soggetto energia psichica e comportamentale, per cercare di ristabilire un contatto con la persona persa. Solo dopo aver mosso tutti i tentativi di recupero della persona perduta, il soggetto può accettare l’irreversibilità della perdita e procedere nel lavoro del lutto.

In questa fase, può manifestarsi una grande irrequietezza, accompagnata da insonnia e dal pensiero continuo della persona persa, unita al senso della sua presenza reale, con una marcata tendenza a interpretare segnali e rumori come indicazioni del suo ritorno.

Per es., il rumore della serratura di una porta che scatta può essere interpretato come un segno del ritorno della persona oppure la figura di un uomo per strada può essere trasformata in quella del marito perduto.

Fase di disorganizzazione e disperazione:

E’ quasi inevitabile che una persona colpita da una perdita sia colta talora dalla disperazione, temendo di non riuscire a salvare nulla e di finire nella depressione e nella apatia. Se, però, le cose vanno bene, questa fase può presto cominciare ad alternarsi ad un’altra, durante la quale il soggetto comincia ad esaminare la nuova situazione in cui si trova e a considerare come può affrontarla. Ciò richiede una ridefinizione di sé stesso e della situazione. Trattandosi di un coniuge, il soggetto non è più un coniuge ma un vedovo, non è più il membro di una coppia con ruoli complementari ma una persona sola.

Questa ridefinizione di sé stesso e della situazione è dolorosa quanto cruciale, se non altro perché significa rinunciare definitivamente alla speranza di recuperare la persona perduta e di ripristinare la situazione di prima. In questa fase avviene il riconoscimento del carattere permanente della perdita che fa comparire un senso di disperazione e apatia espressi attraverso l’isolamento sociale, le difficoltà di concentrazione nelle attività abituali e la mancanza di progettualità, disturbi del sonno e dell’alimentazione. Di solito, questa è la fase più lunga.

Fase di riorganizzazione:

In questa fase il soggetto inizia ad avere una nuova definizione di sé stesso, se prima era sposato, adesso si percepisce come persona sola. Si costituiscono anche nuove rappresentazioni interne adeguate ai cambiamenti avvenuti nella situazione di vita del superstite. Chi è stato lasciato solo comprende che è necessario tentare di assumere ruoli inabituali e di acquisire capacità nuove. Può darsi che un vedovo debba imparare a cucinare e una vedova debba mantenere la famiglia o ridipingere le pareti di casa. Se vi sono figli, il genitore rimasto deve cercare di fare il possibile per fungere da padre e da madre.

In tale fase si assiste ad una situazione di recupero e graduale rinnovamento delle relazioni sociali e degli interessi in varie attività, come esito positivo di un processo di ridefinizione di sé stesso e della realtà. Va notato che tale compito risulta doloroso ma cruciale per il riemergere della progettualità e di una vita appagante.

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